E il giardino creò l’uomo (recensione)

RECENSIONE DEL LIBRO:

Un manifesto ribelle e sentimentale per filosofi giardinieri

E il giardino creò l'uomo
E il giardino creò l’uomo

Jorn de Precy è l’autore di questo libro assolutamente non classificabile in nessuna categoria. Non è un manuale di giardinaggio e neppure un trattato di filosofia, come il titolo potrebbe far pensare. Descriverlo in questi modi, oltre ad essere inappropriato, sarebbe superficiale e riduttivo. Jorn de Precy lo definisce una meditazione sull’arte dei giardini, ma questo libro è molto di più. Scritto nel 1912, in una realtà in cui gli echi della guerra iniziavano a farsi sentire e in cui le macchine silenziosamente cominciavano a spersonalizzare l’agire umano, questo testo prezioso, da custodire e condividere, rappresenta un baluardo di resistenza e le parole che contiene sono una traccia indelebile del legame eterno tra uomo e natura, che non può perdersi, nonostante tutto.

La figura di Jorn de Precy, descritto dal curatore Marco Martella come un islandese solitario e dagli occhi azzurro ghiaccio, è circondata da un alone di mistero. Misterioso è anche questo libro, che è arrivato tra le mie mani in modo inatteso, regalato da uno sconosciuto, e la cui copertina, di un verde intenso, ha subito attirato la mia attenzione. Ho iniziato quindi a leggerlo, un po’ incuriosita, un po’ scettica, ma dopo le prime righe, già sembrava di trovarsi in compagnia dell’autore stesso, seduti nel suo salotto, a bere una tazza di thè, come vecchi amici.

Jorn de Precy inizia a parlare del giardinaggio non come di una tecnica, ma come di un’arte. E in particolare, di quell’arte che consente a ciascuno di noi di entrare in comunicazione col genius loci che abita in ogni luogo. Le città, avvolte da cemento e smog (che erano all’epoca solo un’ombra sbiadita dei mostri di palazzi in cui viviamo noi oggi), hanno esiliato gli antichi dei e spiriti che riempivano di incanto il mondo, in una perfetta armonia tra ciò che era visibile e invisibile. Il genius loci è colui che, per gli antichi Romani, dà identità al luogo in cui vive. Infatti, le città Romane conservavano sempre, al loro interno, un bosco selvaggio in cui la natura potesse continuare a vivere liberamente, non emarginata dal mondo degli uomini, ma perfettamente inclusa e rispettata. Se tutti noi tornassimo ad ascoltare le esigenze del genius loci, sapremmo che alberi e che fiori piantare, sarebbe il luogo stesso a chiedercelo, ma l’uomo moderno non è più in grado di fare questo. Si è perso nei meandri dell’evoluzione in una strada cieca.

Cosa sono, quindi i giardini oggi? Nient’altro che il rifugio di tutte le divinità, esiliate e dimenticate dall’uomo, rintanate tra quelle poche piante lasciate lì, a crescere in libertà; non sono altro che un fermento di vita, un luogo di ribellione e resistenza nei confronti della barbara civiltà, osannata da questi tempi moderni.

Leggendo, si percepisce l’utopia di cui l’autore si fa portavoce, di un mondo in cui il vivere civile non sia lo sfarzo di una casa ben arredata, ma il ritorno alla natura. Jorn de Precy critica aspramente le teorie evoluzionistiche dell’epoca ed esprime tutto il suo disprezzo per quelli che definisce borghesi ammalati di irrequietudine, che giocano ai selvaggi in parchi addomesticati, finti, in cui il brivido dell’avventura non è altro che una pantomima male organizzata. In certi momenti, tra le pagine sembra di scorgere le riserve che Aldous Huxley, di lì a poco, racconterà in Brave New World. A differenza di Huxley, però, Jorn de Precy lascia all’uomo una possibilità per ripartire: i giardini. Questi luoghi ribelli lotteranno per la loro libertà finché ci saranno dei giardinieri, a guidare come direttori d’orchestra, la loro pacifica rivoluzione. E quindi, l’autore, dopo aver accompagnato il lettore a fare una visita nel suo giardino di Greystone (che poco tempo dopo la morte di de Precy verrà trasformato nel parco di un hotel), esorta tutti ad essere, nel loro piccolo, dei giardinieri o dei poeti, che alla fine è la stessa cosa, perché entrambi sono dei dissidenti, dei ribelli che conoscono l’arte di creare a partire dall’invisibile e lo fa con parole semplici e piene di speranza.

Sono passati molti anni da quando Jorn de Precy ha cercato di diffondere nel mondo la sua teoria dell’uomo giardiniere, ma credo che oggi sia fondamentale comprenderla, forse anche più di allora, per tornare a scoprire il mistero del mondo, per tornare a fidarci l’uno dell’altro e ricominciare a respirare un’aria nuova che sa di libertà.

Auguro a tutti, quindi, di prendersi cura di un giardino autentico e selvaggio, con le parole che scrive Jorn de Precy, alla fine del libro:

“Gli dei sono dalla vostra parte. Sì, quegli dei che si è voluto scacciare, anche loro esuli sulla Terra, ma sempre infinitamente più saggi dei mortali. Stanno aspettando gli uomini, sorridendo dei loro errori e delle loro speranze, dietro il cancello aperto del giardino.”

Valeria D’Annibale