Giornata contro la violenza sulle donne
Dedicato a Sara, Elena, Floriana, Giulia e tutte le sorelle uccise per mano di chi diceva di amarle
Sulla cima di una collina assolata, si ergeva Muro. Era una recinzione unica nel suo genere, dicevano discendesse dagli antichi Nuraghi. La sua figura lineare si poteva ammirare da lontano, nelle sfumature rosate che spiccavano sul grigio dei blocchi di granito di cui era costituita. Solida come poche, offriva riparo in inverno e frescura d’ estate agli animali che vivevano tra i suoi anfratti. Piccole lucertole dalle code sottili s’ intrufolavano nelle sue fessure, e lei le accoglieva con garbo. File interminabili di formiche operose solleticavano la superficie ruvida percorrendone le elaborate venature. E uccelli di ogni specie solevano fermarsi sulla sua cima alla sera, per ammirare con lei la bellezza del tramonto infuocato. Perfino le timide felci amavano l’ umidità racchiusa tra le sue pietre dalla forma regolare e rassicurante
Per sua natura, Muro accoglieva ciascuno di loro con il garbo e la gentilezza del suo animo generoso. I muri, è risaputo, offrono protezione, vengono al mondo per riparare e custodire. E lei non faceva eccezione. Eppure, nonostante il variegato microcosmo che rappresentava la sua vita e di cui lei era certamente la colonna portante, Muro percepiva un vuoto che non sapeva spiegare.
Era solo un timido seme, la prima volta che lo vide. Innocuo, le si posò accanto, e lei pensò che avesse bisogno di protezione, come tutti. Così, la sua ombra lo riparava dal sole quando era troppo forte, le sue pietre lo schermavano dal vento di maestrale che infuriava su quelle colline in certe giornate d’ inverno. Il seme capì i sentimenti di Muro, parve ricambiare, mise radici. Il suo fusto sbucò dalla terra. E quanto era bello, nell’ eleganza con cui si ergeva ritto e fiero al suo fianco! E quanto era fortunata, diceva Muro tra sé, ad averlo così vicino. Edera, questo era il suo nome. sapeva farla sentire bene, scacciava la sua solitudine. Edera amava starle addosso, e non si staccava mai dalla sua superficie, assaporandone ogni ruga come nessun altro aveva mai fatto. Edera si appoggiava a lei, la faceva sentire importante come mai era stata.
Per la prima volta, Muro si sentì protetta, custodita. Sottili radici aeree cominciarono a incunearsi tra le sue fenditure. E ogni tanto capitava che una briciola di malta precipitasse al suolo, ma che importava? In fondo, era il modo di Edera per dimostrare l’amore, quel forte abbraccio. E lei era un muro, i muri non sono fatti per sentire il dolore.
Cominciò un giorno di primavera, che il sole ancora era basso all’ orizzonte e la campagna, avvolta nella penombra del crepuscolo, respirava piano il soffio della vita.
– Sei così fredda, Muro. Se ti spostassi un poco, potrei scaldarmi le foglie con il tepore di quei raggi.
Muro tentò di controbattere: – Non puoi chiedermi qualcosa del genere. Per mia natura, non potrei accontentarti.
Per tutta risposta, Edera strinse più forte i suoi tralci, e alcuni calcinacci rotolarono giù, disperdendosi tra le pietre e la polvere. Se avesse potuto, Muro avrebbe urlato, sotto la morsa di quei rami che d’ un tratto si mostravano crudeli e vendicativi. Ma lei era un muro. E i muri, ricordò, per loro natura sono fatti per sopportare in silenzio: pesi, responsabilità, offese. Lo scroscio della pioggia e le lame affilate del ghiaccio. Lo schiaffo delle folate gelide di tramontana, l’ aria bruciante dei pomeriggi d’ agosto. Lamentarsi non era contemplato, nei suoi diritti. E in fondo, pensò, quel dolore lo meritava anche, perché era lei, con la sua sciocca limitazione, con la sua imperfezione genetica, a impedire a lui di essere felice.
Intanto Edera cresceva. Il tronco s’ ingrossò, i rami si fecero più fitti, pesanti. Non c’era più spazio per gli animali, e perfino gli uccelli avevano smesso di posarsi, per via di quell’ intrico soffocante di foglie e radici impossibile da penetrare, anche per la luce. Tra Edera e Muro s’ era fatto un buio perenne, quel genere di ombra che incupisce chi ne è affetto, che sa di muffa, di marcio, che avvelena l’animo. E per la prima volta, Muro desiderò liberarsi di quell’ abbraccio, sentire di nuovo il caldo del sole sul granito, la carezza del vento caldo di libeccio. Ma Edera era cresciuto e la sovrastata in altezza di due spanne. E ormai i suoi rami erano così estesi e s’ incuneavano in lei come tentacoli, da farle dubitare della sua stessa solidità.
Edera glielo aveva ripetuto tante volte – Non sei nulla senza di me. Se decidessi di andarmene, crolleresti. Non sei tu a sostenermi, ma io a tenere su quei quattro sassi che ti ritrovi.
E a ripensarci, a Muro sembrava di non ricordare più come fosse iniziata quella relazione, e se quello che affermava Edera corrispondesse al vero. Ma le bastava guardare in basso, sul cimitero di calcinacci che era diventata la sua vita, per capire che in fondo la pianta diceva la verità.
Ciononostante, volle provare a chiedere aiuto, perché sotto tutta quella pressione capiva che prima o poi sarebbe crollata. Desiderava solo poter respirare, un’ ultima volta. E l’occasione si presentò quando Il Costruttore venne in visita da lei.
Si ricordava di quell’ uomo, fin da quando era solo un ragazzo. Era stato lui, tempo addietro, a posare la prima pietra, quando ancora tutti i capelli erano scuri. Rammentava il tocco dei suoi palmi morbidi, il guizzo dei muscoli acerbi, tesi sotto il peso dei suoi massi. Molte lune si erano avvicendate dall’ ultima volta che la sua mano si era posata su di lei, e riconobbe in quel tocco i palmi induriti da una vita di lavoro, la presa sicura che solo la saggezza dei gesti ripetuti può trasmettere. Ebbe fiducia.
L’ uomo afferrò un ramo di Edera e lo scosse. Muro intuì per la prima volta la paura di Edera e prese coraggio. Il lamento secco, simile al rumore di una crepa che si apre su un solaio, riempì il silenzio di quel pomeriggio d’ inizio inverno.
– Questa pianta va tagliata –
sentenziò il Costruttore. Ma non andò a prendere una scure, e neppure un paio di cesoie. E nemmeno un secchio di malta per riparare le fenditure tra i massi. D’ altronde non aveva alcuna fretta, un muro era pur sempre un muro, poteva resistere un altro po’.
E così, anche Muro si convinse che, in fondo, nemmeno Edera volesse davvero la sua distruzione. E si sentì sciocca perché, di fatto, se fosse crollata, anche Edera sarebbe venuto giù con lei. Come poteva desiderare la sua morte, se dipendeva dal suo sostegno?
Il giorno in cui Muro crollò, s’ era in giugno. Nei giorni precedenti, la pioggia aveva bagnato la terra rendendola soffice e friabile, e il cielo era così terso quella mattina, che lo sguardo poteva estendersi per diverse miglia, tanto era nitida la visione che si presentava agli occhi di chi scrutava l’orizzonte. Eppure, nessuno si accorse di quel muro che era caduto, perché per tutti Muro era già scomparsa da tempo, annullata nella morsa di quella pianta che con il suo incessante lavoro di disgregazione era riuscita a separarla dal resto mondo, a renderla invisibile.
Quando Muro capitolò, nessuno udì il rumore dei suoi sassi che rotolavano a valle. Il frinire delle cicale, intenso nella calura del primo giorno d’ estate, sovrastò ogni altro suono o rumore. Nemmeno Costruttore si accorse di nulla. Solo alla sera, nel passare accanto alle rovine, vide Edera ripiegato su se stesso, le radici divelte dalla terra come artigli che aggrappavano l’ aria, agonizzante, nel tentativo di sopravvivere alla distruzione che egli stesso aveva provocato.
E Muro?
Nell’ attimo in cui aveva intuito la fine, poco prima di rovinare a terra, una strana calma si era impadronita di lei. Si era sentita libera. E nel volo, si era abbandonata a quel senso di pace profonda, suggellata dall’ impatto con quel suolo che per tanto tempo aveva dominato. L’ ultimo dolore, poi più nulla. Per quanto Edera avesse progettato la sua sofferenza in tutti quegli anni, non avrebbe potuto più scalfirla, nella morte.
La terra, unica testimone del suo tormento, avrebbe ricoperto le sue spoglie come una madre. E in quella culla primordiale Muro avrebbe riposato. In eterno.