IL RUOLO SOCIALE DELLA SCIENZA

Quando la scienza rinuncia a sé stessa per salvarsi

Marzo 1938

Ettore Majorana, giovane fisico italiano, se ne va, svanendo nel nulla, lasciandosi alle spalle un mondo in frantumi, macerie polverose, non più in grado di ricomporsi, generate da una frattura profonda, la ferita ancora sanguinante della seconda guerra mondiale.  Leonardo Sciascia, nel libro La scomparsa di Majorana, riporta, come in un’indagine, l’attenta analisi delle lettere del fisico e scava negli indizi incerti e oscuri degli ultimi istanti prima della sua sparizione. Majorana esce di scena, senza lasciare tracce, salutando con criptiche lettere di addio, annunciando, quasi biblicamente, la sua morte programmata. Ai familiari scrive: “Ho un solo desiderio: che non vi vestiate di nero. Se volete inchinarvi all’uso, portate pure, ma per non più di tre giorni, qualche segno di lutto. Dopo ricordatemi, se potete, nei vostri cuori e perdonatemi”. Le sue parole risuonano fredde e consapevoli, ferme. Simula il suicidio? Quello che fa è prendere un biglietto per un piroscafo Napoli-Palermo, il 25 marzo alle 22.30, ma nessuno sa se ci sia mai salito o se abbia effettuato uno scambio di identità, fingendosi qualcun altro, magari un inglese, o facendo salire al suo posto qualcuno che gli somigliasse. Nessuno ha saputo trovare la verità di quegli istanti. Nessuno l’ha più rivisto o, per lo meno, nessuno l’ha più rivisto nella veste del fisico Ettore Majorana, che il mondo conosceva. L’unica certezza innegabile è che se ne sia andato. Vivo o morto ha smesso di esserci, si è tirato fuori dal grande gioco della ricerca della bomba atomica. È fuggito, si è nascosto, incapace di fermare l’oltraggio alla scienza a cui stava assistendo. Majorana conduceva i propri studi di fisica quantistica in solitudine e si racconta che gettasse via ciò che scriveva su pezzi di carta, addirittura sui pacchetti delle sigarette che fumava. Scomparendo, Majorana, ha creato (forse consapevolmente) ‘un mito: il mito del rifiuto della scienza’. Le sue scoperte le teneva per sé, studiando vedeva la natura delle cose e pre-vedeva il pericolo della strada che la scienza voleva percorrere. Non scriveva articoli. Rigettava, anzi, fortemente, la gabbia accademica delle pubblicazioni, dei concorsi truccati, della competizione. Lui ne rimaneva fuori e guardava distante. Preferiva fermarsi un passo indietro, ma libero da costrizioni e vincoli. Non gli importava il primato di scoperte pericolose, perché Majorana già conosceva ciò che non diceva. Forse con il suo atteggiamento criticava tacitamente la rigida militarizzazione della società fascista. Conduceva una silenziosa protesta. Si ribellava rimanendo in disparte. Solo e spaventato.

Ettore Majorana (sinistra) e Galileo Galilei (destra)

Sciascia conclude la sua indagine senza scoprire la verità, ma sentendola intimamente. Lascia al lettore l’immagine mitica di un uomo che, quasi in uno sforzo titanico e disperato, rifiuta la scienza che porta dentro di sé, per fuggire da qualcosa di atroce che, come Cassandra, annuncia, senza che nessuno, però, gli dia ascolto.

Nelle ultime pagine del libro, il viaggio di Sciascia ci conduce in un monastero. Si dice che lì abbia vissuto un grande scienziato. Ci guida per i corridoi e le stanze un certosino che sembra conoscere le risposte alle domande che vorremmo rivolgergli, ma risponde con parole misteriose. Ci guarda con uno sguardo chiaro e sereno. Non conferma e non nega. Ci saluta sulla soglia con una domanda: “Ho dato risposta a tutti i vostri quesiti? ” e noi rimaniamo così, a fissare l’ultima pagina con un senso di smarrimento nel cuore. Sciascia risponde di sì, noi lettori, invece, non lo sappiamo. Ci sentiamo smarriti in un’incerta irrequietudine, un po’ insoddisfatti, ma ci sembra di percepire accanto a noi un sorriso sottile, ormai irrimediabilmente coinvolti nel custodire un segreto.

E quando coll’andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile,
il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità.
Tra voi e l’umanità può scavarsi un abisso così grande, che ad ogni vostro eureka
rischierebbe di rispondere un grido di dolore universale…

Bertolt Brecht, Vita di Galileo

Padova, 1609

Dopo il buio storico, che dal medioevo ha guidato l’umanità fino al Rinascimento, la fede viene spodestata dal dubbio, dalla sete di conoscenza e dalla ricerca sperimentale della rivoluzione scientifica. “Il mondo è percorso da un’inquietudine nefanda”.  Poco meno di un secolo prima, Copernico ha reso note le sue teorie del moto dei pianeti intorno al sole. In Italia e in Europa l’Inquisizione svolge, però, un controllo autoritario e asfissiante per difendere la dottrina aristotelica a cui la Chiesa affida tutte le sue certezze e credenze. Anche in questa epoca la vecchia società si sta frantumando, nuove terre vengono scoperte, nuove idee nascono e i brandelli di un mondo in declino oppongono brutalmente resistenza, nella lotta di sempre tra vecchio e nuovo, tra passato e futuro, mentre l’umanità vacilla nella sottile linea d’ombra del presente incerto e impaurito.

Brecht ambienta in questo contesto l’opera teatrale Vita di Galileo, scritta negli anni tra il 1938 e il 1939 e messa in scena per la prima volta nel 1943. La figura di Galileo, più uomo che eroe, incarna il senso di sconfitta della guerra. Sconfitto è chi perde e rinuncia alle sue ambizioni, ma sconfitto è anche chi vince, complice di compromessi e violenze atroci. Galileo è l’uomo di scienza che inventa, studia e scopre, assetato di conoscere sempre di più. “Sta sorgendo una nuova era, un’epoca di grandezza in cui sarà una gioia vivere”. Tra le parole piene di ottimismo di Galileo si legge la triste ironia dell’autore, che più di tre secoli dopo è consapevole del vero epilogo della storia. La scienza è libera? Viene spontaneo porsi questa domanda leggendo il libro di Brecht. Lo scienziato pisano è, infatti, un esule, senza casa, dipendente dalla paga concessa da procuratori e principi, costretto a spostarsi da Padova alla corte medicea per vivere e lavorare. La libertà di indagine, quindi, diventa un’utopia, che non può essere raggiunta, se non tenendo per sé il frutto delle proprie ricerche, senza metterle in vendita al miglior offerente. Le pagine scritte da Brecht trasudano di speranza. Galileo dirà di credere nell’uomo e nella sua ragione, e queste parole, scritte all’apice più oscuro della Seconda Guerra Mondiale, sono un grido di dolore alla ricerca dell’umanità perduta. Un grido a cui Brecht spera che qualcuno possa rispondere, lo stesso grido che anche Majorana, in quegli anni, fuggendo, ha rivolto al mondo.  

“Galileo, ti vedo camminare su una terribile strada. 
È una notte di sventura, quella in cui l’uomo vede la verità.
È un’ora di accecamento, quella in cui crede 
il genere umano capace di ragionare.”

Bertolt Brecht, Vita di Galileo

Galileo, però, non mette solo in discussione le teorie scientifiche preesistenti, ma anche la centralità dell’uomo. Galileo/Brecht toglie bruscamente l’essere umano dal centro dell’universo, lo rende un ingranaggio fra tanti di un meccanismo più complesso, non indispensabile, non più immagine di quel Dio lontano e tradito, non più protagonista del grande teatro del mondo.  Lo stesso scienziato si fa da parte. Nel 1633 Galileo rinuncia alle sue teorie abiurando, ma lo fa per poter continuare a pensare liberamente. Brecht riscrisse e rivisitò più volte il testo dell’opera. Alcuni vedono nella parte finale una condanna all’autoritarismo che permeava sempre più la Germania dell’Est in cui viveva. Forse è così.

Galileo silenziosamente va avanti e si ribella. Continua a studiare, a ricercare, a pensare e, soprattutto a scrivere, come Brecht che continua a scrivere, per chi verrà dopo. Nelle ultime pagine Andrea, allievo di Galilei, va a trovare il maestro ormai vecchio e quasi del tutto cieco; ora è a sua volta uno scienziato. Galileo gli rivela di aver segretamente portato a termine i Discorsi sulla meccanica e caduta dei gravi e gliene consegna una copia. L’antieroe si rialza e diventa eroe nel semplice gesto della consegna di un libro e affida tutto il suo sapere ad Andrea, che dirà euforico “la scienza non ha che un imperativo: contribuire alla scienza”. Nella rinuncia consapevole dello scienziato c’è il più grande contributo; nella scelta di non farsi vedere come un eroe c’è tutta la volontà di non lasciare che il mondo faccia “uso della scienza ad esclusivo vantaggio dell’umanità”, altrimenti ci trasformeremmo in mercenari pronti a tutto, pur di raggiungere uno scopo.

Il ritiro dalle scene di Galileo Galilei, la scomparsa di Ettore Majorana, le parole di Brecht hanno avuto un senso? Cosa ci portiamo dietro oggi? Cosa affidiamo a chi verrà dopo? Forse, bisognerebbe custodire la luce delle scienze e farne buon uso, non spreco e continuare a cercare, consapevoli che se molto è stato trovato, ciò che è ancora da trovare è di più. Come ci dice Brecht.

Prendiamo anche noi in consegna il suo libro.

ANDREA - Sventurata la terra che non ha eroi!
[…]
GALILEO - No. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi.