Il cofanetto rosso parte 1

Enrico Di Giacomo

Il sole declinava rapidamente dietro i palazzi intorno alla Stazione Tiburtina. Il fresco tramonto autunnale filtrava tra i cipressi e le cappelle del Reparto ex-civili. L’asfalto dei vialetti cominciava a farsi umido. Leonardo affrettò il passo e si diresse nel suo ufficietto. Doveva cambiarsi subito d’abito e correre alla stazione a prendere il regionale per Poggio Mirteto. Se l’avesse perso avrebbe dovuto aspettare una buona mezz’ora e non gli andava proprio di ciondolare per la Stazione Tiburtina. Proprio quel pomeriggio di novembre si era trattenuto a pulire un mausoleo abbandonato al Pincetto e si era fatto tardi.

Il cofanetto rosso di Enrico Di Giacomo

Leonardo era uno dei necrofori più anziani al Verano e avrebbe potuto rifilare quella faticata a un collega più giovane, ma per tutta la vita era sempre stato molto serio sul lavoro e non voleva proprio cambiare ora che stava per andare in pensione.

Quella sera meditava che il cimitero del Verano gli sarebbe mancato, con i suoi viali solitari eppure popolati dalle storie incise sulle migliaia di lapidi che li costeggiano.

Attaccò il camice all’attaccapanni, mise la scopa di bambù dietro la porta. Il tempo di indossare il giubbetto e di prendere lo zaino e fu sul viale. I rumori della via Tiburtina lo colpirono come uno schiaffo, il traffico del ritorno a casa cominciava a ingolfare la strada. Quella sera sul treno non riuscì a leggere Metro: il pensiero della pensione lo assorbiva completamente. Alla stazione di Poggio Mirteto cominciò a piovere. Salì sull’Ape e si avviò verso la campagna. All’ingresso del casaletto, Lillo gli fece le feste. Leonardo prese da un ripiano una scatoletta di carne e la svuotò nella ciotola del cagnolino. In casa mise due ciocchetti di quercia nella stufa e due fette di guanciale sulla padella. Non accese la televisione. Il pensiero della pensione lo ossessionava. Che fine avrebbe fatto? Come avrebbe passato le giornate? Poteva sembrare assurdo, ma il lavoro al cimitero era la sua ragione di vita. In mezzo ai morti si sentiva vivo. Nei trent’anni di lavoro come necroforo ne aveva conosciuti a centinaia. E centinaia ne incontrava tutti i giorni quando usciva a pulire i viali e a curare la manutenzione dei mausolei: lo studente ucciso nella sua camera d’albergo nel 1905, la madre esemplare, il soldato vittima del dovere, la nobildonna russa in esilio a Roma, il pio sacerdote, il patriota di Porta Pia… Non riusciva a pensare che entro pochi giorni non li avrebbe più rivisti. Come avrebbe passato il tempo? Che fine avrebbe fatto? Alla fine la stanchezza ebbe la meglio.

Il giorno dopo la solita routine: pulizia dei vialetti del Reparto israelitico, un salto a controllare che i vandali non abbiano saccheggiato le tombe vicino al Tetraportico, una restrizione il pomeriggio. Leonardo compì quest’ultima meccanicamente: prese la cassetta di zinco, prima mise dentro il bacino, poi il cranio, le altre ossa e infine mise i femori a x. Saldò il coperchio e mise l’urna sul carrello.

Solo allora si rese conto che il collega giovane era sbiancato: Leonardo lo guardò con sufficienza: ecco chi lo avrebbe sostituito. Prima di staccare gli dissero che mercoledì sarebbe dovuto andare al Belvedere a controllare la segnalazione di un guasto alla cisterna dell’acqua. La notizia gli rese un po’ di buonumore. Il Belvedere era un reparto di lusso del cimitero, costruito alla fine dell’Ottocento per le famiglie signorili di Roma. Era tanto che non gli capitava di andarci e apprese la notizia come se si fosse trattato dell’invito a una gita.

Il Belvedere si chiamava così, perché si trattava di un’altura di tufo, da cui si dominava buona parte della parte vecchia della necropoli. Era un reparto signorile, attraversato da un bel viale circolare, costeggiato da tombe progettate da architetti di grido. Dominava l’altura il serbatoio dell’acqua, costruito come se fosse una torre medievale. Leonardo decise di andare al Belvedere a piedi. Preferiva fare una passeggiata per sgranchirsi un po’ e per incontrare degli amici che non vedeva da tempo.

Mercoledì non era una bella giornata. Tirava vento ed era nuvoloso. Imboccò la galleria mortuaria XXVI con la torcia, perché sapeva che all’interno era buio pesto. Le pareti erano ricoperte di fornetti abbandonati. I pezzi di alcune lapidi erano sul pavimento e bisognava evitarli per non cadere. Sulle lapidi più vecchie qualcuno aveva scritto a matita messaggi per i parenti: una antica usanza sparita nell’epoca dei cellulari. Tutto era ricoperto da uno spesso strato di polvere. Poi la luce del sole.

Il vento agitava le cime dei cipressi, nell’aria il rumore dell’acqua che entrava nella cisterna. Leonardo imboccò il vialetto e si diresse verso la torre. Da sotto la porta usciva un rivolo d’acqua. Si era rotta la guarnizione di uno dei tubi. Il problema principale non fu sostituirla, ma chiudere la valvola di alimentazione, che era incrostata di ruggine. A metà giornata gli fu possibile riparare il guasto. Allora si sedette su una panchina del vialetto a mangiare il panino che si era portato per il pranzo. Era tanto che non andava lì. Ne approfittò per guardare un ultima volta le tombe.

Una apparteneva a un bancario coinvolto nello scandalo della Banca romana, un’altra era di una famiglia di nobili, un’altra apparteneva a un cardinale. Le cappelle erano tutte abbandonate ed erano state sigillate dalla polizia dopo gli ultimi casi di profanazione. Erano infatti piene di sculture di bronzo e di mosaici. La tomba che più lo incuriosiva era quella dell’orientalista Paolo Vecchietti, morto nel 1896. Si trattava di una cappella di marmo verde, costruita come una pagoda cinese. Attraverso una breve scalinata si accedeva al sacello, al cui interno si trovava una scultura a grandezza naturale del defunto, vestito da antico romano e sdraiato su un’ottomana. Sui lati del mausoleo si trovavano bassorilievi di bronzo rappresentanti la Città proibita di Pechino e la Grande Muraglia. Ai lati del mausoleo si trovavano teste di Budda.
Leonardo si soffermò a guardare la tomba ancora una volta. Stava per prendere la strada del ritorno, quando gli venne in mente che esisteva un vialetto dietro le tombe: una sorta di strada di servizio utilizzata in passato dai necrofori per inumare le salme. Era tanto che non lo percorreva, così decise per l’ultima volta di darci un’occhiata. Al vialetto si accedeva attraverso una breve scalinata, collocata in posizione defilata. In pochi se ne ricordavano. Ci arrivò facilmente. Sulla strada si affacciavano gli ingressi dei mausolei, riquadrati di marmo. Le porte erano tutte incrostate di ruggine. Ripercorse il vialetto anche con la memoria, non solo fisicamente, ricordando i primi giorni di lavoro al Verano. Trentacinque anni prima. Un’ondata di malinconia gli oppresse il cuore. Stava per arrivare alla fine del viale, quando vide che una delle porte era socchiusa. Era la porta della tomba Vecchietti. Ebbe il terrore di essersi imbattuto nei ladri e corse via. Riparò dietro un leccio a riprendere fiato. Dopo qualche minuto vide delle persone distinte uscire dal mausoleo e allontanarsi. Leonardo andò a vedere la porta della tomba e la trovò chiusa. Chi erano quelle persone? Quella notte penso continuamente all’accaduto. Il giorno seguente chiese ai colleghi dell’archivio chi fosse il proprietario di quella tomba e scoprì che era stata acquisita da tempo dallo Stato, perché abbandonata da anni. La costruzione ora era sottoposta a vincolo storico, per il suo valore artistico. Chi erano allora quelli? Per qualche giorno non ci badò più, poi dovette tornare al Belvedere a sistemare una fontana e li rivide. Erano persone ben vestite, che in silenzio uscivano dalla tomba e salivano subito su una grossa automobile. Leonardo andò a controllare la porta: i cardini e la serratura erano stati oliati.

Il mercoledì successivo le automobili diventarono due. Risalirono la collinetta e si parcheggiarono vicino alle scalette. Leonardo le vide passare per il viale del Tetraportico e prese a spiarne gli occupanti. Erano otto, di mezza età, tre erano donne. Le vetture svoltarono dietro la tomba di Goffredo Mameli e si diressero verso il Belvedere. Le rivide due ore dopo, quando sfrecciarono fuori dal cimitero. Osservarne le mosse per lui divenne un appuntamento fisso del mercoledì pomeriggio: apparivano intorno alle 15:30 e uscivano alle 17:30. Puntuali come la morte. Il loro numero cresceva. Facevano di tutto per non dare nell’occhio. Alcuni entravano nel cimitero a piedi e vagavano fra le tombe prima di dirigersi alla tomba Vecchietti.

Il venerdì Leonardo con qualche pretesto si allontanava dall’ufficio e andava a controllare il mausoleo. Non c’era assolutamente nulla di insolito. Ma questa era proprio la cosa strana, perché chi non ha nulla da nascondere non si preoccupa di non attirare l’attenzione. Invece sul vialetto non c’era una cicca! E gli italiani sono tutto fuorché puliti, anche nei cimiteri. E poi cosa facevano nella cripta di una cappella abbandonata da anni?

continua…

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