ULTIMO DEMONE – Padre dei sentieri

L’aria era ebbra di gelo,un freddo pungente ed insidioso. La notte era parsa limpida e priva di nubi,ma in compenso un vento gelido spirava da nord. Ovunque per le navi andavano tremolii,talvolta brividi,ma egli si dibatteva nel suo agitato sudore,come dovesse liberarsi dalla costrizione di una prigionia. Un ibrido tra sogno e ricordi velava i suoi occhi,immersi in una veduta non propria,scostante.

Ultimo Demone

Reyzhard era stato concepito in Everral e fin da infante mostrava una rara propensione per le armi,per la sua spada. Nelle sue vene non scorreva sangue reale,ma ve ne sarebbe bastata una stilla che in esso l’avrebbe nobilitato intero. A scorgerlo suggeriva alterigia,tanto nella sua figura slanciata ma imponente,tanto nella parvenza del suo animo. Mormorava ciò che in realtà latrava acuto,che dichiarava barbarie nel profondo. Era in grado d’esternare solo falsa giovialità,di celebrarsi nelle proprie abilità,atte a celare,rinnegare l’indole passionale. Due anni dalla sua nascita fu partorito Ephsys,fratello minore che aveva sempre ammirato e da cui a aveva sempre,inconsapevolmente,ricevuto ammirazione. Pochi anni dopo,Ryjedel,loro candida madre,diveniva vittima delle orde del flagello. Tale e numerosi altri episodi avevano sancito l’inizio di una guerra che si sarebbe dilungata fino alla caduta di Ulmar. Fin dalla morte di Ryjedel i due fratelli,segregati ambedue in un dolore acuito dalla disarmante dolcezza materna,s’erano costretti a raffermare il proprio legame,già forte in qualche modo,ma che si sarebbe rinvigorito in ogni comune dissidio,d’ogni comune speme. Fergus,loro padre e ancora prima loro re era un vivido esempio d’onore.

La sua somiglianza con Reyzhard era stupefacente:il medesimo sangue aveva forgiato la medesima anima in due corpi differenti solo d’età,ma non di vigore ed imponenza. Egli li aveva allevati all’arte guerriera,anziché destinarli al profondo logorio che la magia poteva creare nell’animo mortale. Quella stessa magia che aveva lacerato il cuore elfico,che li aveva dotti alla corruzione,soggiogati da un potere arcano ed indomabile. Ben scorgendo l’instaurarsi di un profondo rapporto fraterno,aveva diretto il loro comune interesse alle armi ed alla guerra,cosa che,negli intenti di Fergus,doveva intensificare quel già concreto tratteggio.

Non aveva mai ceduto la vista ad una lama dorata,così scintillante al pallido sole di Northrend. Eguagliando la sua altezza,quella spada era troppo greve per un bambino di appena otto anni,e,non riuscendo a brandirla,si limitava a contornare l’elsa affondando l’apice nei mormorii del manto ghiacciato. Melodia di gelo assuefatta al tepore,tepore di carne,tepore di luce. Tutto ciò estraniava il vento,esule in quei giorni di spira verso sud. L’aere permaneva quieto,magistralmente incomprensibile,indestabile dal ruvido sonno. Agli occhi dorati di leggende sulla guerra,sull’onore,sulle imprese di qualche eroe,quella neve era soffice,tanto che potesse sciogliersi dolcemente in essa e quasi tastarla coi suoi piedi. Echi onirici ridondavano lontani nella sua mente,immagini che avrebbero potuto realizzarsi:duceva il pensiero a quando avrebbe saputo destreggiarsi con quell’arma stupenda ed affrontare impavido le orde di “nemici”. Nulla di più speranzoso,nulla di più arrendevole alla sete di gloria,tanto più divina al guardo di un bambino. Si sentiva padrone di quella terra,traboccante di gioia ed impaziente di vedersi guerriero.

Al suo fianco,silente ed intimorito,tremolava Ephsys. Neppure ad una creatura di sei anni era concesso esonero da quel freddo intenso,colmo ed invadente. Tuttavia Reyzhard era fin troppo volto alla sua lama e a cercare di dominare il suo spirito per accorgersi,seppure vi fossero stati,dei brividi che percuotevano il suo esile corpicino. Dinanzi ad essi si ergeva tutta la maestosità di un re,senile per celebrare capelli corvini,giovane per cingersi di canizie. Lunghi capelli sbiaditi forse dalla perennità dei ghiacci,ma animati dall’irrefrenabile vigore,volontà d’aversi re fin quando non lo fosse stato davvero al giudizio del suo regnare. Il suo sguardo ritraeva severo una sorta di turbamento che quel giorno lo rendeva impassibile. Intimidiva Ephsys ma non scalfiva il gaudio di Reyzhard. Fergus continuò ad osservarli via via più altero. Tra le braccia familiari lo era sempre stato,soprattutto alla sua genie,in netta opposizione alla dolcezza che la sola figura di Ryjedel poteva esprimere. Eppure in quel tardo albeggiare lo era più del solito,come a contrastare il recente ricordo materno.


– Avete freddo? – chiese esibendo superbia e severità.
– No,padre. – disse serio Reyzhard,ancora al lume della sua felicità,del suo futuro onore. Si prodigava nelle stesse parole che udiva tra gli adulti senza capire appieno il loro significare,ma riusciva ugualmente ad adoperarle nel modo più adatto,levigato alla pregnanza che volgea loro. Ephsys non era neppure in grado di rispondere tanto era sensibile al gelo di quel giorno.
– Non dimenatevi fanciulli… – proferì austero Fergus. – ora non può che tendervi le sue braccia,giacere vorace in attesa di divorare le vostre carni ed ancor prima il vostro spirito – la sua voce tonante si affievoliva,ora giungeva quasi mormorio ai venti – in quest’ode di ghiaccio e patrio gelo:esso vi ha generati,esso sarà vostro avo,vi mieterà quand’anche il suo canto dovrà sciogliersi… – le sue parole vibravano nel pensiero di Reyzhard,ma come il suo gracile fratello non riusciva a comprendere cosa volessero dire.
Il re brandiva una spada immensa agli occhi dei due bambini,lama che li aveva sempre intimoriti. Un’elsa contesa tra grigio e candido,priva di cimeli e preziosità. La spenta lama argentata errava nelle dimensioni. Entrambe si accorpavano in un’opera eccelsa,ma poco appariscente,e quando Fergus si apprestò a sollevarla destò lieve timore nei due fratelli. Reyzhard scosse il capo dai suoi miraggi e ripetendo Ephsys indietreggiò di un timido passo. Fergus mantenne l’aspetto austero,e sostenendo la pesante arma si avvicinò a Reyzhard. Elevato il capo ad osservare la solennità del sovrano,il bambino riscopriva occhi velati di stupore ed inconsciamente indietreggiava,più lentamente di quanto Fergus non gli si avvicinasse. Reyzhard era impietrito,emise uno sguardo di terrore ai grigi occhi paterni. Ma tali non tardarono a soffocare nel silenzio il suo terrore mentre incedeva,ora pienamente dinanzi a Reyzhard. Preservando l’elsa nella mano destra afferrò con la sinistra il braccio del bambino ed un cieco movimento giunse con violenza il ferro e la carne. Il tremulo braccio destro versava sangue:il manto si sarebbe presto rivolto roseo.
– Ho tanto freddo… – sussurrò,sperando che le parole non giungessero all’udito del padre. Poi,chinando il capo,vide vano conforto nel gelo che lo attorniava,ora raccolto a non comprendere,nel pavidare d’esprimere sofferenza. L’arma dorea si depose umile in terra a scemare nel niveo.

Il bisbigliare della sua mente lo condusse fuori dal sonno,ma ripreso da interrogativi,fece si che non si destasse del tutto. Obbligato all’onirico rimembro di suo padre e di suo fratello,ora dirigeva riflessioni sulla giornata precedente. Era stato talmente invogliato nel suo stato d’animo da non badare a ciò che accadeva. Non conosceva di preciso chi Darlek fosse,ne ignorava aspetto ed importanza che potesse avere nei confronti di Arius. Se prima aveva evitato di soffermarsi a ciò,ora che lo faceva non trovava comprensione a cosa contasse per Arius. Riguardo alle faccende orchesche e alla loro “patria” non si degnava di affacciarvisi:era lì per compensare un debito,onorare un’alleanza e poco sarebbe cambiato se gli orchi avessero speso qualche giorno in meno per raggiungere una terra. Pian piano però,si rendeva conto ch’egli stava fuggendo,incapace di accettare un cambiamento così profondo e rapido. Aveva sempre noto che alla morte paterna il forte legame che condivideva con Ephsys si sarebbe logorato inevitabilmente. L’orizzonte si dipingeva di dispiacere,quasi rimorso per ciò che si stava verificando,ma ciò che più premeva adesso era la solitudine. Sincerando le vie di quest’ultima,Reyzhard emise pochi sospiri prima di destarsi ed aprire gli occhi al lucido legno della sua stanza.

Inconsciamente,ciò cui pose primo lo sguardo fu quella stessa lama dorata,da sempre ad egli affine,levigata dal suo animo,oltre che dal suo destreggiarla nei più destri affondi. I suoi capelli castani erano piuttosto lunghi,sciolti sul giovane viso. Ingannevole l’aspetto impassibile e fiero,sotto il quale si celava ancora un’ardente voglia di libertà,di propria giovinezza. Sollevatosi dal suo letto colse gli sbiaditi membri della sua armatura e se ne vestì. Priva di elmo,era pregna di un colore aureo,effuso nel tempo,senza che s’erodesse però il nobile Mithril. Venature grigie la percorrevano,un grigio così superbo da suggerire unicamente fierezza. Il suo sguardo raggelò,mentre si avvicinava a brandire la fulgida lama dorata. Era solo,e tuttavia immerso in un’infinità di esseri che a malapena conosceva. Avvertiva solo un irrefrenabile bisogno di afferrare quell’elsa,per sentire e godere della dolente libertà che solo la solitudine poteva concedere. Già deposta nella sua guaina,la prese vincolandola all’armatura. Aprì l’uscio della sua stanza,ritrovandosi nel vuoto corridoio degli alloggi. L’elfo,evidentemente turbato in quel superbo aspetto,percorse a passi lenti,fino a giungere sul ponte. Solo poche guardie vi erano stanziate,ma la vista di Reyzhard venne catturata da altro. Con sorpresa,rivolgendosi al cielo,notò ch’era ancora notte inoltrata e donò alcuni preziosi istanti a rimirare gli astri. Il suo sguardo si mosse poi ad infrangersi tra le deboli onde,reduci della precedente tempesta. Egli amava la gentile oscurità della notte,non invadente,ma che lo carezzava come suo devoto. Le guardie non diedero segno di sorpresa:erano solite incontrare qualcuno che si destasse nell’arco notturno. Reyzhard era ancora confuso,nell’atto di perdere la gioia delle cose familiari e conosciute per chinarsi all’ignoto ed alla solitudine. Dopotutto era cosciente che se anche fosse rimasto il dolore ed il logorio sarebbero stati maggiori. Uno dei due sarebbe divenuto re e sarebbe stato impossibile mantenere lo stesso rapporto fraterno che c’era stato fino ad allora. Si era giunto ormai al momento di crescere ed affrontare da solo le proprie esperienze. Una miriade di pensieri plasmavano il suo stato d’animo soffocando il presente e le sue sensazioni. Una morsa leggera ne contorceva il ventre,mentre l’ira faceva posto all’amarezza del ricordo. Era la brusca,seppure conosciuta ed accettata,sensazione di perdere inesorabilmente gli attimi e gli usi trascorsi,ancorati al soffice manto del suo spirito. Si riscopriva a perdere le concezioni ed i limiti che aveva sempre vissuto,a rileggere le stesse emozioni del suo passato,turbandosi nell’asprezza di tale lettura. L’afflizione si volgeva a lui con parole di gelo,il mezzo più significativo che avesse per comunicare con il suo animo. Non poteva ignorare i brividi che quei pensieri gli portavano. L’immagine ancora rossastra del corpo paterno,l’intera giovinezza che doveva essere abbandonata in pochi gesti e congedarsi,insieme al congedo dovuto dinanzi al fratello. Cercò di scorrere gli anni e le virtù nei poveri attimi della mente,riversando nel suo grembo tutta l’incomprensione e il dolore di quella scelta. Ritornò ad osservare il pallore della luna,mentre tentava di mascherare i moti che lo percuotevano. Nel suo animo tutto vigeva più complesso. L’affetto che condivideva in Ephsys non era un semplice legame di fratellanza,ma come ben sapeva,contemplare questo vincolo significava unità e forza nei confronti delle numerose esperienze. Fergus conosceva ogni lembo di quei ghiacci,ed era avvezzo alle difficoltà che comportava la sua esistenza. Nel cuore di una guerra,tra i vessilli che sigillavano l’odio e l’eterno disegno di morte non v’era speranza di sopravvivere da soli,senza custodire affetto per una persona cara. L’unico modo per preservare la loro adolescenza dalla solitudine e il puro orrore della guerra era quello di incatenarli e costringerli,ben prevedendo che la morte lo avrebbe raggiunto quanto prima. Per tante morti Fergus riuscì a celare ai due pargoli lo svolgersi della guerra,derubandoli della dura ferita che li avrebbe spinti a destare una sofferenza che sarebbe morta solo con loro. Gli decantò la morte della madre come un incidente e li tenne per quanto possibile lontani da tutti gli altri ragazzini,per dare vigore al loro legame e per difenderli da tutto ciò che risiedeva doloroso nell’animo umano. Ma era chiaro che per quanto il loro legame si rinsaldasse,tanto esso diveniva morboso e violento. Allo stesso tempo Fergus gli mostrò la durezza del suo cuore,poiché comprendessero le vicissitudini della vita e s’avvezzassero a sopportarle. Ma comprese troppo tardi che le loro anime,che appena cominciavano a forgiarsi,ne avrebbero risentito quanto prima. Quando Reyzhard era ormai quattordicenne il rapporto con suo fratello era degenerato,fino a giungere ad una vistosa breccia in ciò che era indebolito e malato. La vicinanza delle due fiamme aveva tanto eroso quella costrizione da farla sfaldare. L’affetto stava sfociando in odio,un odio morboso ed insano. In quei giorni d’autunno Ephsys fuggì dalla propria dimora,correndo per la città sommersa dalla neve. Era deluso e irato per come si erano rivolte le cose e appena dodicenne,senza aver mai visitato da solo Everral,raggiunse le mura,dove,dinanzi alla città deserta,si stava consumando l’ennesima battaglia. Gli occhi intimoriti del ragazzino diedero libertà allo sconvolgimento delle sue emozioni con un pianto,così che il profondo dispiacere per ciò che era accaduto si esonerasse dallo spiegare ciò che la sua vista gli suggeriva. Conosceva le armi fin troppo bene,senza però essersi mai affacciato a scrutare una guerra,il sangue possedere ogni canto del campo di battaglia e sfumare agli occhi di coloro da cui sgorgava. Reyzhard uscì per cercarlo,nonostante provasse quasi odio in quegli attimi nei confronti del fratello minore,ma non poteva egualmente lasciarlo vagare in una città deserta. Non gli fu difficile ritrovarlo:le uniche impronte sulla neve erano le sue e conducevano al portale. Quando vi giunse,rimase catturato dalla vista dello scempio che si stava compiendo. Il massacro,mostrato come uno spettacolo agli occhi dei due ragazzini,agì da placare le emozioni recenti e indurli in una paura indicibile. Le azioni scorrevano naturali e senza preavviso,nel silenzio che sarebbe giunto a contemplare la morte. Quegli occhi traboccavano di incomprensione ed ogni lacrima di paura congedava un tremolio dei loro corpi. Potevano conoscere la morte,ma non l’avevano mai veduta. L’animo grondava di un misto tra terrore e stupore,incapaci di proferire o concedere una spiegazione a ciò che vedevano. Il leggero e rovente flusso d’emozioni s’interruppe,frantumando impetuoso la corazza di cui si vestivano. Catene fatte d’innocenza e ingenuità si ruppero improvvise,facendo risuonare l’angoscioso rumore metallico. Per pochi attimi riuscirono a percepire quella solitudine che la loro vita comportava e che gli era stata nascosta da loro stessi. Erano pochi i guerrieri sopravvissuti e che ancora si avvicendavano sul campo,tra di essi Misthar e Fergus. Le orde non morte li avevano decimati eppure numerosi continuavano a rinnegare lo sconforto,allontanando gli attimi della loro resa,avvicinando quelli della propria morte. Erano governati da una terribile angoscia,atterriti da ciò che non comprendevano appieno e non desideravano custodire nei propri sguardi,nonostante vi fossero costretti da una curiosità inconscia e timorosa. I loro gesti invecchiavano e i pensieri si affollavano senza ritrovare sfogo. Quelle immagini divoravano i loro sensi,così come drenavano senza inibizioni l’ombra dei loro passi,il sudore dei loro atti e il dolore delle loro ferite. Giovani anni venivano cancellati per cedere il posto a sogni eterei e mura di paglia. Nelle loro menti riecheggiava l’infrangersi sulle proprie rive al rilucere del crepuscolo sulle increspature del mare.
Subdolamente la purezza del loro spirito veniva rapita,poiché si abbeverassero di quel sangue e si nutrissero di quelle carni. Il dissidio che la rottura del loro legame comportava ora rifletteva confusione,esonero dal pensiero. Tutto si concedeva nel riflesso della battaglia. Reyzhard,non aveva portato con sé armi ma indossava comunque una faretra con poche frecce di rimanenza. Distolto lo sguardo lo ritorse su quello del fratello,per dare vigore al silenzio che si era costruito.

Reyzhard rinvenne dai suoi ricordi,per riportare i sensi alla brezza ed al chiarore lunare. Era ancora scosso,turbato da numerosi pensieri. Pervaso dal gelo era sempre riuscito nell’accettare la solitudine,estraniarsi dagli altri e dai sensi. Il suo era divenuto amore per ogni circostanza che lo portasse ad essere solo,nel coltivare il silenzio e darsi egoisticamente a se stesso,alla sua vita. Avvertiva la solitudine come sua,come emblema del suo essere,come prova che lo distinguesse dal resto del mondo. Talvolta era un modo come un altro per idealizzare la propria superiorità,per svendere al suo animo ciò che non voleva condividere con gli altri. Spesso tutto ciò gli arrecava un debole piacere,finché rivangando la sua terra venivano alla luce pietre troppo dure a spostarsi.
Il ponte della nave si era fatto gelido e la notte tardava a ritirarsi. Reyzhard si guardò intorno,rivedendo le impassibili guardie che non lo degnavano di attenzione. La risposta dei suoi istinti a tutto ciò in cui era coinvolto era un’insaziabile volontà di fare uso della splendida lama dorata. Stringendo l’elsa con maggiore forza la estrasse dalla sua fodera e,poggiandosi al legno di una delle strutture che emergeva sul ponte,la mantenne sollevata rimanendo seduto. Osservò la lama con grande cura e con occhi fieri. L’amore per la sua solitudine era spesso amore per la sua arma,ogni volta che ne aveva la possibilità si soffermava a guardarla o a farne uso anche se non ne aveva bisogno. Tentò di intrecciare le trame dei suoi pensieri a quelle della spada,permanendo ad ammirarla con studio. Poco dopo udì i passi di qualcuno che si avvicinava,salendo sul ponte. Voltatosi Reyzhard intravide la sagoma aprire l’uscio ed avvicinarsi ad egli.
– Anche tu non riesci a dormire,vero,elfo? – domandò l’orco,ormai vicino e visibile ai riguardi di Reyzhard.
– Già,Ushar’al. Ma non mi sento tanto in vena di parlare con un orco. – disse con un tono di voce abbattuto. Era chiaramente turbato e privo della volontà di nasconderlo all’orco. Era stanco,privo di forze e poco intento a complicare i suoi pensieri.
– Vorrei che sapessi una cosa di me… – aggiunse sorridendo. – Chiunque abbia combattuto al mio fianco almeno una battaglia può reputarsi mio amico. E tu ne hai combattute due. – sorrise.
– Ne sono contento. – rispose impassibile. – Ma questo è il momento peggiore che tu potessi scegliere per essermi amico. – riportò il suo sguardo sulla lama,in uno stato confusionale,quasi incosciente. Vinto dall’incombenza del suo pensiero non si permetteva di dare troppa attenzione alle proprie parole.
– Al contrario io penso che sia il momento migliore. Sembri turbato,elfo. Cosa c’è che non va?
– No,è solo apparenza… – rispose distratto.
– Smettila di costruirti le parole… mi và di sentire cosa c’è che non va,non i tuoi scherzetti stanchi. – Ushar’al aveva un aspetto insolito,riposato e in qualche modo felice.
– Arius deve stare molto male da quanto ho capito,Ushar’al. Anche se non ho prestato attenzione sembrava qualcosa di grave. Dovresti fare questo buon viso a lui,non a me. –aggiunse serio. Il suo bisogno di solitudine eguagliava il suo bisogno di sfogarsi con qualcuno. Restava immobile,con lo sguardo fisso sulla spada dorata.
– Lo so. Conosco e comprendo il male che lo circonda in questo momento. Ma sarà stremato dalla veglia che ha osservato stanotte. Non riuscirebbe a svegliarsi. – Ushar’al sorrise ancora. – Perciò preferisco dare noia a te,almeno finché non si sveglia lui.
– Veglia?Per quel suo amico?E’ tanto importante per lui? – Reyzhard raccolse finalmente attenzione su quell’interloquire improvvisato.
– Si. In ogni caso,come mai sei già sveglio?
– Faceva troppo caldo ed ero in cerca di aria fresca.
– Con la neve che ammanta il ponte,Reyzhard? – L’elfo accennò un sorriso.
– Non l’avevo notata… E’ difficile da spiegare,sciamano. Solo il mio silenzio potrebbe esprimerlo. E tu sei qui per parlare.
– La tua scelta è stata improvvisa e hai finto che fosse una scelta semplice. Hai finto che non ci sarebbero state conseguenze o almeno non ti avrebbero danneggiato. Ed eccole,elfo. In parte te le sei cercate.
– Lasciamo stare,orco,è un piacere che ti domando. – i suoi pensieri erano stati smossi,allontanati,seppur impercettibilmente dal costante ritmo del suo animo. Il sollievo era leggero,ma in lui nasceva la voglia di esonerarsi da pensieri e ricordi.
– Va bene,capisco. Devi sapere che Lordaeron è piena di non morti. Dal momento del nostro approdo fino a quando avremo raggiunto il luogo che cerchiamo dovremmo affrontarne un’infinità.
– Lo so. E allora?
– Sembri piuttosto scarso con quella tua spada. E poi dà l’impressione di essere troppo vecchia con quel giallognolo.
– Cosa? – la sua domanda era tra il sorpreso e l’indispettito. L’elfo si sollevò,mantenendo la spada a contatto con il legno del ponte.
– Per fortuna non c’è ruggine,elfo. E poi non comprendo di quale materiale è fatto questo rottame.
– Non per rispondere alle tue stupide provocazioni… ma questa spada è la migliore arma che si possa desiderare. Non immagini neppure quanto preziosa sia.
– Beh,a cosa ti serve che sia preziosa se devi usarla in combattimento?Non dirmi che voi elfi misurate il sangue versato con la preziosità…
– Perché sei qui?Insomma,se non riesci a dormire mettiti a gironzolare per il ponte,ma da solo,senza infastidire me. – Reyzhard ripose la lama nella sua guaina e fece pochi passi,come a voler ritornare sottocoperta. Ushar’al rimase alle sue spalle,osservandolo mentre si allontanava lentamente.
– Ed ora dove stai andando? – chiese serio.
– C’è una sala,uno spazio dove io possa allenarmi?
– Si,ci sarebbe. Ma non ti sembra che quella spada sia stata usata abbastanza?
– Dovresti imparare a contenere la tua spontaneità. E comunque guidami in questo luogo.
– Se preferisci… – lo sciamano si portò al fianco di Reyzhard,poi attendendo qualche attimo ritornò all’uscio,controllando che l’elfo lo seguisse. La pelle dell’elfo dei ghiacci era chiara,molto simile a quella di un umano. I suoi occhi possedevano una tonalità bionda,di poco più scura del solito,così come erano i suoi capelli in tenera età. La sua altezza eguagliava quella dello sciamano,fino a superarla di poca misura. Ushar’al,seguito da Reyzhard, ritornò sottocoperta e percorse il primo corridoio. Giunto all’incrocio in cui il corridoio proseguiva in tutte le direzioni,scelse quello a sinistra,per poi percorrere quest’ultimo fino in fondo. Un paio di vedette controllavano i corridoi. Era ancora molto presto,neppure i primi albori si davano sfogo,la notte coltivava silenzio. Era raro poter incontrare qualcuno all’infuori di loro. Ushar’al svoltò altre tre volte,percorrendo il medesimo numero di corridoi. Le Arsane erano imbarcazioni immense e al loro interno risultavano spesso intricate. Erano nate per mano di popoli ancestrali,atte soprattutto a trasportare le truppe di un esercito. Finalmente i due si ritrovarono in una sala piuttosto estesa,con qualche tavolo e le solite torce per dare bagliore agli antri della nave. Proseguendo diritto si trovava un altro corridoio,a destra due porte laterali ed ancora un altro corridoio. A sinistra altre due porte laterali. Aprirono il primo uscio a sinistra,ritrovandosi in una stanza. Tali luoghi erano vicini agli alloggi. Per raggiungerli sarebbe bastato prendere il corridoio a destra,giunti al bivio svoltare ancora a destra,scendere al piano inferiore e percorrere un ultimo corridoio. Di lì,per una grande estensione su tre piani,si sviluppavano le camere destinate ad accogliere chiunque alloggiasse sulla nave. Dalla stanza entrarono in una delle tre porte,ritrovandosi finalmente in una vasta sala completamente vuota e priva di mobilio. Durante il cammino non si scambiarono traccia di discorso,né gesti volti alla comunicazione. Reyzhard era pensieroso,sconvolto dal dissolversi dell’indissolubile. Inconfessabile il lontano piacere che gli davano i gesti d’amicizia dello sciamano. Accennò un sorriso,comprendendo che anche senza ammissione,lo scopo per cui Ushar’al era lì,era esattamente quello di sollevargli il morale. Tuttavia la morte non poteva tacere per un sorriso. I suoi occhi si accecarono al perseverare del gelo nella sua mente. Non contava più l’effetto che la realtà aveva sui sensi,contava ciò con cui la mente li nutriva. Non poteva abbandonare i suoi frammenti di gelo come Arius aveva fatto,perché egli ne era costituito. Le immagini precedenti ripresero ad assillarlo a ripetersi e pacificare il suo corpo,provocando il suo animo. Ushar’al raccolse grande quantità d’energia,per poi dalla sua mano estenderla alla stanza. Seguendo la forma del legno,lo scudo d’energia avrebbe protetto la sala e la nave dai loro attacchi. Poi Ushar’al si voltò ad osservare il guerriero elfica,con la spada riposta nella guaina e lo sguardo fatto d’inconsistenza.
– C’è qualcosa che non và,Reyzhard?Se non ti va di allenarti non ci sono problemi…
– No,davvero. – rispose spostando lo sguardo sullo sciamano e portandovi l’attenzione. – Non ti avrei seguito se non avessi avuto voglia di allenarmi. – aggiunse,per poi sguainare lentamente la spada dorata.
– Allora se ne sei sicuro,io inizierei. – sorrise. Subito dopo si portò all’altra estremità della sala,lasciando un considerevole spazio tra di loro. Reyzhard annuì,per poi richiudere l’uscio dietro di sé. Poi rivolse ancora lo sguardo al suo avversario.
– Io ho solo una spada con me. Tu hai la tua magia,orco. Anche se non sei bravo dovresti iniziare con un arma.,o ci sarebbe troppo svantaggio.
– Certo. – lo sciamano abbassò lo sguardo,poi sottomise il suo corpo,richiamando ancora una volta energia nella sua mano destra. Era energia del fulmine,completamente vergine ed isolata da ogni legame con altre energie. Il suo era un azzuro purissimo e luminescente,vivace ed inconfondibile. Facendo timidi movimenti con la mano l’energia cominciò a plasmarsi lentamente. Smuovendo fisse della materia,giunse ad ammettere la forma e l’aspetto di una spada. – Non devi preoccuparti. – continuò lo sciamano nel lieve stupore di Reyzhard,che ad una tale distanza riusciva comunque a scorgere l’arma prendere volume. – Non ti farà del male,né a contatto con il tuo corpo,né per trasmissione attraverso la tua lama. Il mio controllo è troppo austero perché accada. – sorrise ancora.
– Beh,non si può negare che sia un’arma. Forse un po’ troppo pericolosa.
– Confido comunque che tu schivi ogni mio affondo,perché la mia abilità con la spada è insignificante. Tu,invece,dovresti essere rapidissimo in questo.
– Lo sono. – il guerriero esitò ancora pochi attimi,poi brandendo con forza la lama dorata corse verso lo sciamano. Anni di duro allenamento lo avevano reso rapidissimo e la sua corsa fu breve. Nonostante l’ampiezza Reyzhard si ritrovò subito dinanzi allo sciamano. Stringendola ora con due mani,in uno scatto affondò la lama lateralmente,incontrando la spada d’energia brandita da Ushar’al.
– Questo è un allenamento,cerca comunque di ricordarlo. – sorrise,evitando il secondo fendente. Il ritmo dei suoi movimenti aumento,sorprendendo l’elfo e assumendo velocità non indifferente. Poi,reggendo la spada nella sola mano destra,fu lui a condurre un affondo che colse la lama dorata. Lo scontro si stazionò e lo scambio di colpi divenne rapido,mentre i due rimanevano pressoché immobili con le loro gambe e le due spade erano in continuo contatto. Cercando di superarsi in destrezza i due brandivano le lame con entrambe le mani.
– Mi sorprendi,orco. Sei molto rapido nei movimenti. – l’elfo indietreggiò velocemente,lasciando che il fendente dell’avversario non urtasse che aria. Mentre il corpo dello sciamano era flesso,il guerriero si spostò lesto alle sue spalle. Il rapido colpo che sorprese Ushar’al alle spalle incontrò una barriera d’energia,che lo respinse,facendolo indietreggiare senza avviso. Subito dopo si voltò,correndogli incontro. Rinvenendo in un affondo poderoso obbligò Reyzhard a lanciarsi indietro bruscamente,finendo col perdere l’equilibrio e doversi affidare alle sue braccia per non finire in urto al pavimento. – La barriera d’energia non era prevista però,Ushar’al.
– Mi avresti ucciso – rispose ansimando.
– Perdonami. Riprendiamo. – l’orco annuì. Reyzhard si risollevò,ed essendo ancora pericolosamente prossimo allo sciamano,indietreggiò. Ushar’al si lanciò in un nuovo attacco,scagliandosi contro di lui e brandendo la lama con due mani. L’elfo fu sul punto di vedersi al di sotto della lama elettrica e,nonostante sapesse che non gli avrebbe arrecato il minimo danno,accumulò aggressività,avvicinandosi con uno scatto e sferrando un fendente dal basso della sua postura. La pesante lama giunse all’altezza del suo stomaco,dopodichè Ushar’al conferì una potenza disarmante al colpo,diretto verso il basso,che costrinse la lama dorata a chinarsi. Reyzhard indietreggiò,per poi rialzarsi e allontanarsi. Con estrema rapidità si portò ancora una volta alle spalle dello sciamano e,quando ormai si era voltato scomparve ancora alla vista,portandosi ancora una volta alle sue spalle. Questa volta però lo sciamano rimase fermo,mentre Reyzhard gli afferrava il collo e gli puntava la lama contro. Pochi secondi dopo rilasciò la presa.
– Devo dire che come spadaccino non sei male.
– E’ il mio mestiere. – rispose,mentre Ushar’al si voltava a porgergli il viso. – Se non sapessi maneggiare la spada io perderei ogni dignità. – entrambi ansimavano,anche se Reyzhard dava segni minori di stanchezza e affaticamento. L’incombenza del suo turbamento si era assoggettata con sorpresa alla reattività di cui il suo corpo aveva bisogno. Solitudine e pensiero erano momentaneamente allontanati.
– Bello per essere un rottame,comunque. – sorrise.
– Orco,rimani pur sempre un orco. Non t’illudere che un allenamento mi faccia cambiare l’opinione che ho di te. Sciamano… – disse,ricambiando il lieve sorriso.
– Hai davvero un’opinione di me?Beh,allora sono fortunato elfo,perché io di te non ne ho nessuna.
– Ahahahah,sei davvero divertente orco. Pensa,cominciavo a credere che possedessi qualche carattere positivo. – lo sciamano non rispose,per indietreggiare di pochi passi. La spada che si era formata riconcesse la sua energia ad Ushar’al. Divergendo le braccia concentrò ancora una volta energia nelle sue mani,questa volta nello stupore dell’elfo. Una creatura insolita prese forma dinanzi al suo evocatore. Superava di non poco l’altezza di entrambi, e la sua costituzione appariva eterea,fragile. Il suo corpo aveva le sembianze di un vortice ventoso,ma le sue braccia possedevano una forma,così come il volto e gli occhi luminescenti di grigio. Aveva anche delle spalliere ,di un vivace colore azzurro e una specie di elmo di colore più scuro. Tutta la sua consistenza era grigia,e l’energia che diffondeva era tutt’altro che indifferente.
– Ecco,ti presento il mio elementale d’aria.
– Cos’è questo coso? – chiese tra il divertito e il meravigliato.
– Un elementale d’aria.
– E sarebbe?
– L’essere che tu chiami coso,elfo è una potente creatura che posso plasmare a mio piacimento sfruttando l’elemento aria.
– Bel coso,allora. Però assomiglia molto ad un piccolo ciclone con l’elmo. Come hai detto di averlo creato,con un ventaglio?
– E’ più agile di me,e poi puoi “ucciderlo” quando vuoi,tanto posso ricrearlo a mio piacimento. Ti assicuro che se vuoi allenarti è meglio se lo fai con lui.
– Che coso interessante… mi allenerò con lui. Ma tu cosa hai intenzione di fare?
– Resterò a guardare. – lo sciamano sorrise,mentre tra gli arti dell’elementale si plasmava la medesima lama di fulmine che prima aveva usato.

Era ancora desto,trainato in un limbo in cui vigeva privo di forze,con la mente esausta e quasi allucinata. La sua giovinezza era ancora gradevole,seppure tutto confessasse il suo stremo. Non era solo lo sconforto ad immergerlo nella sofferenza,era il suo corpo,stremato dalla veglia a pregare di cedere,di lasciarsi al sonno. Seduto sul letto ad osservare il gelo che si faceva beffe delle fiamme,ad osservare un corpo che vive,ma che non è. La sua giovane vita era stata condotta tra rancori e dolore,senza però che ogni esperienza lo cambiasse. Sempre affine a se stesso,con la sua natura che già si dimostrava quando era poco più di un bambino. Ora provava un visibile sconforto,un prevedibile abbandono. Il suo essere esprimeva la sensazione e l’irrefrenabile volontà di abbandonarsi a qualcosa,e in quel momento poteva abbandonarsi solo a se stesso. La consueta sensazione che l’ottusa visita della realtà non può concedere,il perverso e dolce piacere della perdizione. Conosceva bene la sofferenza,il suo cercare un appoggio e ritrovarlo in sé stesso non era vittimismo,ma solo la naturale espiazione che l’animo cercava. Dunque conosceva l’emozione d’abbandono e il piacevole scivolare dell’esistenza sul suo viscido. Era un esonero dalle preoccupazioni,dalle afflizioni e dalla costanza della vita,era una fuga ed un ritrovo. Spesso era stato l’unico modo di superare l’infelicità che risiedeva nel suo animo,e proprio per questo rappresentava grida di codardia e di viltà. Per lui era solo debolezza,essa giustificava i suoi comportamenti e le sue difese. Anche solo soffrire per un motivo visibile l’avrebbe riscattato da tanta paura e tanta vigliaccheria. Darlek significava molto,nel suo arco di vita era la persona che conosceva di più,quella con cui aveva condiviso più attimi di vita. Il suo affetto era profondo,protettivo e stabiliva un legame forte,anche perché i due caratteri spesso si incastravano alla perfezione. Darlek era come un fratello con il quale aveva però la libertà di un amico. Non rivisitò la loro amicizia,perché l’aveva fatto tante volte,si lasciò solamente a ciò che doveva provare. E poi la sua scelta,quella di abbandonare i ricordi,doveva essere rispettata. Il fioco esempio di coraggio doveva permanere intatto. Il suo presente era amarezza,delusione. Per tutta la notte il medesimo pensiero aveva generato un dolore dalle sembianze insolite. L’ansia era sparita,ma in grembo soffriva la tortura che come sempre non veniva espressa. Non piangeva,né allentava il giogo per costringere le emozioni a sfogarsi e ciò rendeva tutto più complesso. Il rodere nel suo animo,conosciuto e inconfessato lo ammorbava sempre più,si rivangava e inacidiva,perché non poteva fuggire. In quei momenti,come in tutte le esperienze di tal genere,diveniva un silente tempio di sofferenza. Senza ostacoli prendeva possesso,si radicava. Debolezza,ridondante debolezza. Per non comprendere e non vedere lo stesso animo pavido e vigliacco di sempre. La stessa incapacità di agire,la stessa incapacità di muoversi. Non era la prima volta che reprimeva le lacrime per suo inspiegabile volere. L’impassibilità era solo un altro strumento. Era come se il sangue che gli scorreva fosse divenuto ardente e lacerava i suoi tessuti in proporzioni spaventose. Al di là della sua vita la depressione marchiava il suo animo giovine ed ogni errore rischiava di piombare nell’acuto tormento. La sua era stata un’infanzia felice,ma che terminò troppo precocemente. Quella di fuggire era una sua abilità innata,tanto che miscelando le lettere dei suoi sogni giunse a comporne un’infinità. La sua immaginazione tesseva il suo stesso umore,con un potere immenso su di lui. Ogni attimo ed ogni luogo erano nomi o segni da evocare,erano in circostanze oniriche il suo mondo. Nel suo giacere e contemplare era questa la sua aspettativa. Pensare ed immaginare un ordine e un avvicendarsi differente,costruire una realtà fittizia. In lui rimanevano ancora tracce dell’esperienza demoniaca,di quei ricordi lucidi che gli offuscavano il pensiero. Molto era dovuto alla propria fantasia,pensò. Nulla esisteva enumerato come dalla realtà se non gli era visibile. Finché non ritornava ai propri sensi,la realtà era ciò che la mente,sollecitata dall’animo gli presentava dinanzi. Era stato difficile riuscire a compensare voragini del suo spirito con l’incombenza degli eventi,ma in qualche modo aveva interrotto i suoi sogni apprestandosi a vivere. La concreta necessità di fare qualcosa,oltre che pensarlo,si era fatta strada,tanto da invertire le sue ragioni. Spesso,soprattutto nella sua solitudine,il tempo era solo lo strumento per quantificare gli aspetti del proprio mondo. Chinandosi a se stesso ritrovava il lieve sollievo di cui aveva bisogno,ma dopo di ciò le sue proiezioni continuavano a materializzarsi. Finché costretto proferiva una parola o si muoveva cosciente. In questo modo,la dimenticanza in parte desiderata,lo aveva tenuto lontano da ciò che accadeva. Ma il dolore che lo destava e gli lucidava gli occhi lo riportava finalmente alle sensazioni reali. Si chiese il perché di tante battaglie e dell’andamento del suo viaggio al fianco degli orchi. Sebbene la sua partenza avesse il chiaro intento di dare salvezza a ciò che lo ancorava alla concretezza,all’unica persona cara,tutto ciò stava sfumando. Da parte sua si era ritrovato a non poter compiere il suo obiettivo con le conseguenze che ora viveva,da parte dei suoi compagni,due interi eserciti erano stati decimati. A quale scopo? Ancora migliaia di uomini rimanevano,orchi in cerca di patria ed umani in cerca di terra. Ma se la sua mira era fallita,cancellata qual era il motivo che lo spingeva a restare? Mentre il suo animo invecchiava e consumava di sofferenza,gli interrogativi si affollavano,in una riflessione caotica dei fatti. Ma ancora una volta la sua debolezza,in avvento di resa gli faceva smontare ogni pensiero,per riordinare il succo dell’irrealtà. E a sé stesso,alla sua immaginazione si abbandonò ancora.

Era tempo di piogge,nell’autunnale vestirsi degli alberi,un autunno leggero di brezza che giungeva a dipingere la nuova stagione. L’aria elargiva una sensazione di limpidezza,leggerezza,nell’odore sospeso della pioggia. Un ritmo dolce e sbarazzino era conferito da poche gocce che venivano giù placide. Runforth era più che mai attiva in quell’umido pomeriggio,mentre si praticavano arti magiche per preparare al meglio gli studenti ai giorni successivi,che avrebbero visto probabilmente un’intrusione nelle foreste per avere la meglio su vari gruppi di troll silvani. Tra di essi non v’era il più grande talento di tutta l’accademia. A tutti i suoi compagni era sempre parso strano,in qualche occasione persino pazzo. La sua timidezza calcolava ogni gesto,mentre Arius si confondeva nei suoi tratteggi. Nelle arti magiche possedeva un’abilità immensa. Il potere che custodiva implicito era superiore a chiunque,perfino al mago che doveva essere il più potente,la guida di Runforth,Lord Emins. Ma i suoi comportamenti erano spesso inspiegabili. Il suo umore era spesso negativo,colmo d’ira per chiunque,un’ira celata dai timori. Possedeva pochi amici,tra i quali era strettamente legato solo a Darlek. Per via della sua abilità e della sua bellezza avrebbe dovuto custodire larga stima e sicurezza di sé,ma i suoi comportamenti allontanavano le ragazze,così come le amicizie. Sebbene egli non fosse interessato,poiché immerso continuamente in sé stesso,la sua vita stava divenendo di sabbia. Per lui si trattava di una vita serena. Quel giorno Arius era preso dalle sue preoccupazioni e affogato nei rivoli del passato. Aveva una curata necessità di palare e di esprimersi,ma non riuscì a trovare Darlek in nessun luogo dell’accademia. Spinto da un timore ancora lieve ed in crescendo,decise di chiedere aiuto a coloro che conosceva. Lord Emins era uno dei pochi che potesse sapere dove si trovava il suo caro amico. Turbato ed irato raggiunse la stanza in cui sedeva,per porgergli parola.
– Non riesco a trovare Darlek da nessuna parte. Dov’è?
– Non dovresti essere a proseguire le tue lezioni,Arius? – domandò austero.
– Non mi andava e penso che non fosse così necessario. Sono qui per sapere dov’è Darlek,pertanto rispondimi,per favore.
– Non ne ho la minima idea,ragazzo. Ma non devi preoccuparti,sarà da qualche parte in città.
– Ho già provato a cercare in città,con l’aiuto di qualche incantesimo. E i risultati sono stati nulli.
– Abbassa il tono,ragazzo mio,ricorda che mi dai del “tu” perché io te lo permetto e perché ti reputo un ragazzo intelligente,perciò cerca di non parlarmi in questo modo.
– Il vecchio ha ragione Arius,cerca di non esagerare. – appena giunto nella stanza,Larien sorrise.
– Tu hai idea di dove possa essere? – chiese Arius,accentuando la propria preoccupazione.
– No,ma ricordo che qualche ora fa si è diretto fuori dalla città.
– Fuori dalle mura?
– Vuoi che ti accompagni?
– No,grazie,ma resta pure qui. – rispose secco. Larien annuì,abituato al fare del giovane arcimago.
Arius si allontanò sotto lo sguardo degli altri due maghi. Uscito dalla stanza percorse varie sale e corridoi,finché,incrociando numerosi maghi sul suo cammino,uscì dall’edificio principale per recarsi in città e poi alle mura di Runforth. La sua mente si affannava ben più di quanto non facesse il suo corpo,in cerimonia d’ira e timore per cosa fosse accaduto. Il ragazzino sentiva la necessità,il bisogno di agire,perché mai come allora si sentiva incapace di fare qualunque cosa. Inoltre l’ansia cominciava a tastare la sua sensibilità. Era sempre stato vulnerabile a tutte le sue emozioni,in particolare all’ansia ,cui cedeva impotente. Quel giorno però una fermezza riscoperta lo spingeva a non distrarsi e fissare azioni decise. Si recò fuori dalle mura e sotto lo scrosciare si diresse,sempre più costante,traverso vari sentieri che si aprivano nel mezzo della foresta. Camminò per ore,senza mai perdere la risolutezza che riscopriva in quel giorno,senza mai cedere alla propria natura. Ei stesso s’impressionò e si diede coraggio per continuare la ricerca di Darlek. Sentì l’animo rinnovato,per la prima volta l’astrazione dei suoi pensieri era scomparsa. Riusciva a percepire lo sfinimento nelle sue gambe,la fame,la sete. Era stremato,sporco del fango e madido della pioggia interrotta da poco,ma la carnalità gli conferiva forza,il suo animo gioiva insensatamente. La sua corazza non era più vuotata dell’uomo,sentiva di essere lui a distendere le sue carni e muoverle a vita.
Mentre il crepuscolo abbronzava le terre,il sentore di quella fatica si era ormai insinuato nelle sue membra. Come se il bronzo della sua stanchezza definisse nuovi i propri confini,rendesse più evinto il suo essere. Ricolmo della nuova sensazione si spinse di radura in radura,sorpreso e rinnovato. Quando giunse,dall’intrico di sentieri,ormai lontano dalle mura di Runforth era notte inoltrata,senza che avesse scorto una traccia del suo caro amico. L’ansia riprese ancora il sopravvento,così che riuscì unicamente ad immergersi nel sonno dolce di stanchezza. Appoggiato ad un albero vicino ad uno dei sentieri si lasciò succube dei suoi bisogni.
Si risvegliò prima dell’alba,inebriato dei timori che oramai si stavano concretizzando. Non aveva idea di dove Darlek fosse,disperso chissà dove in quelle foreste immense pullulanti di troll. Probabilmente anche a Runforth si destavano preoccupazioni. Arius era tutto indolenzito,sfiduciato e privo della risolutezza che aveva mostrato il giorno precedente. Camminò ancora qualche ora,finché la vista del suo amico lo rincuorò. Adagiato ad un masso,Darlek appariva saturo di ferite,sangue che sgorgava come offerta al terreno. Arius si avvicinò cauto,costretto nel fragore della sua paura.
– Darlek… – sussurrò preoccupato. Subito dopo si avvicinò al corpo per raccoglierlo e,con le ultime energie rimaste teletrasportarsi alla fortezza. Fu Lord Emins a soccorrerlo appena giunto,nella profonda amarezza che Arius provava.
– Hai idea di cosa gli sia accaduto,Arius?
– No,l’ho ritrovato sanguinante molto lontano da qui.
– Non ha lesioni gravi,ma ha perso molto sangue e se fosse rimasto ancora per poco senza aiuti,probabilmente sarebbe morto. – sul viso di Arius scorse una lacrima.
– Quando ho cominciato a cercarlo non credevo gli fosse successo nulla di grave. Penso sia stato rapito da qualche gruppo di troll e ferito in quel modo.
– E’ molto debole,non si risveglierà presto.
– Avrei voluto fare qualcosa di più. Non pensavo sarebbe successa una cosa del genere. Sono stato praticamente inutile.
– Non abbatterti,figliolo. Non avresti potuto fare nulla in ogni caso,anche se l’avessi trovato prima. Non puoi restituirgli il sangue che ha perduto o ridargli le energie che aveva….
Arius sentiva di essere stato inutile,si sentiva debole ed incapace. Darlek era quasi morto perché non era riuscito nel suo agire. In sé fu giudice cruento di tutte le colpe. Ma la sensazione peggiore era quella d’impotenza. Come immobile nel coro che striscia senza i suoi occhi,con le gambe arroccate e le catene di strazio che baciano le sue braccia. La sua fermezza era impossibilità di essere altrimenti.

Presto rinvenne nel suo presente. Dinanzi a lui c’era quello stesso corpo eroso,che gli trasmetteva sempre più un’insaziabile e disarmante tristezza. Sentì rinascere,come dalla genesi di sé stesso quella medesima sensazione. Incastonato tra cumuli rocciosi,respirando le polveri della propria inesistenza. Non più debolezza,bensì un’essenza pienamente eterea. Arius non era,poiché l’aria che non respirava,le melodie che non udiva,era come se non esistessero. Il suo animo nacque angosciato,subito sentì stringere la morsa del suo ventre. La sua volontà di abbandonarsi ora non aveva più senso. Era già stato abbandonato dalla realtà. I suoi pensieri non ebbero il tempo di riverberarsi che grondante d’ira avvertì il profondo bisogno di agire,fare qualcosa. Rievocato dalla sua scostante visione,non poteva percepire la propria volontà,solo provarla. Quel fiume di lava che li discostava aveva sciolto le ultime rimanenze di quel fiorire di dubbi,tramarsi di spirito. Il suo impulso fu aggressivo e vorace di tutta la sua forza. Arius raccolse la spada poggiata al suo letto e la sollevo,portandosi di nuovo di fronte al corpo disteso di Darlek. Pose la spada in orizzontale,sollevata al di sopra del viso di Darlek. La sua paura arrogante si faceva sempre più agguerrita,tanto che ogni alito di pensiero fu messo a tacere perché fuggisse dal terrore della sua impossibilità di agire. Non esisteva alcun modo di salvarlo,la sua fine era segnata e la sua rabbia non sarebbe servita a nulla. Ma il suo istinto permaneva eguale. Avrebbe fatto qualunque cosa per cambiare. La sua impotenza,la sua debolezza dovevano avere fine. Fece un altro passo in avanti,poi chinò il capo,mantenendo sempre la lama in orizzontale,alzandola questa volta ad ostacolare il suo sguardo.
– Riscriverò la mia anima nel tuo sangue… – sussurrò lentamente. Parole che scorrevano limpide,dalla pura fonte dei suoi istinti. In quegli attimi,ciò che avrebbe dovuto smuovere la sua misera condizione,l’avrebbe unicamente peggiorata. Ma le sue urla erano profonde,il suo corpo tremava per il pensiero di ciò cui s’accingeva. Poche lacrime acidule furono mura della sua sofferenza,della sua tensione,le sue palpebre s’accasciarono per celarle. Trame così sensibili che presto sarebbero crollate in quel disegno irruvidito…

Reyzhard appariva stanco dal confronto con l’elementale. Aveva combattuto per oltre un’ora sotto gli sguardi divertiti di Ushar’al,mostrando tutta la sua abilità. Tra fendenti e scatti si era affaticato.
– Beh,ferma il tuo coso,ho bisogno di una pausa. E’ molto agile,al di là di quanto potessi pensare. – sorrise.
– Anche tu non sei stato male,Reyzhard. – rispose Ushar’al,richiamando il possente elementale. L’elfo aveva momentaneamente superato l’apparente nostalgia che abbarbicava la sua anima,ma un intrico di emozioni spiacevoli lo regalava ancora una volta al suo dissidio. Gli attimi di distrazione sarebbero finiti,e al termine di questi avrebbe dovuto fare i conti con il suo essere.

Gli occhi di Ephsys trasparivano incomprensione e meraviglia. La visione di quel padre imponente,di quella regia maestà era quanto mai incompleta di ragione e senno. Le sue parole erano fugate umilmente e senza comprensione,ma la vista del fratello destava timori reconditi. Fergus,allontanatosi da Reyzhard si avvicinò ad Ephsys,immobilizzato dalla paura. Neve cadeva del suo candore sui manti di gelo,su quelle vite esuli. Fergus afferrò il braccio sinistro del bambino,per poi sollevare la possente lama sotto gli occhi imprudenti di Reyzhard. Un silenzio invaso dal sibilare congiunse d’un tratto ferro e carne. Le loro labbra si mossero per cantare silenzio,mentre le loro anime,intrise nel gelo,calice del suo sangue,s’elevarono a tacere.

Arius